Michele Paladino nasce l' 1/8/1950 a Montesano (Salerno).
Ha frequentato la scuola serale di grafica di Vigevano e la scuola degli Artefici di Brera a Milano nel 1977.
L'anno successivo si diploma in maturità artistica presso il Liceo Artistico Statale di Milano. Nel 1982 si diploma all'Accademia di Brera nel corso di Decorazione con i professori Luca Crippa e Giovanni Repossi.
Ha tenuto mostre personali e partecipato a collettive nazionali ed internazionali. Sue opere figurano pressocollezioni pubbliche e private; con Luigi Terruggi, Bruno Gandola, Raffaele De Grada e altri è stato membro di giuria di concorsi nazionali di pittura.
Attualmete vive e lavora a Vigevano.


" A seguire testo di Giuseppe Vico, docente presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano"


Scrivo alcune note su Michele Paladino in un pomeriggio domenicale di maggio, dopo una visita alla sua villa e al suo spazio di esperienza familiare ed artistica.
Avevo promesso che avrei scritto qualcosa su un uomo, nel senso un po’ antico del termine, che io ritengo pittore e scultore. E il ritenere assume qui il senso di ciò che non si vuole dimenticare o rimuovere e che ritorna con insistenza a incalzare su quest’uomo che vive l’inquietudine del demone del bello e della bellezza sofferta di chi sa anticipare, nei suoi desideri e nelle sue ispirazioni, quello che quadri e sculture esprimeranno in seguito.
E’ un processo spirituale che ci rimanda a S. Agostino:"Tardi ti ho amata bellezza".
E’ sempre tardi quando si scopre ciò che vale. E, allora, bisogna inseguire e diventare anche umili di fronte a ciò che si crea e che non appaga mai.
Paladino è innanzi tutto un homo faber alla latina, un uomo intero che vuole tradurre nei suoi lavori tutto ciò che un uomo può dare e donare. Pennelli e martelli dominano la scena e la sua testa, un vulcano in continua eruzione, fa da cornice al quadro stesso della sua vita che, dopo anni di mestiere in una vera e propria bottega d’arte, invita alla visione e all’ascolto dei suoi quadri, delle sue sculture e di tutto quello che gira attorno alla loro origine e ai nodi e agli snodi che sottendono anche le radici del sogno e dell’immaginazione.

Lui narra e io lo seguo. La prima condizione che si viene a creare tra me e Paladino e quella della sorpresa e dello stupore. Sul piano quantitativo e su quello qualitativo: ha creato tantissimo, le sue opere sono ovunque. In molte Chiese, per le quali ha fatto cose belle, quasi sospese tra l’esigenza della modernità e il bisogno di non perdere il contatto con la tradizione. Paladino sa indurre a gustare anche ciò che non si vede ancora. Come un buon maestro d’arte vorrebbe dirti:"Prova anche tu". Sembra andare contro corrente proprio attraverso quella sua classicità inquieta ed elabora vie sue per ascoltare la chiamata che gli viene da mondi apparentemente lontani per colmare quella insoddisfazione e quel desiderio di cose alte che portano sempre anche il segno di una nostalgia di ciò che ci costituisce e che non conosciamo ancora nella sua pienezza. L’espressività aiuta l’uomo a manifestarsi. E vede la vita sempre con una visione d’insieme: alla vita puoi solo aggiungere ma non togliere.
Paladino crea e non getta nulla. Anzi, raccoglie ciò che trova, anche scatole vuote dei "pelati" e con quattro martellate tira fuori cose belle.

Ha studiato, come allievo di bravi Maestri a Brera, e tanto come autodidatta. Ha coltivato a modo suo l’esercizio della memoria sull’arte del passato e ha incarnato in sé una specie di principio, di paradigma di riferimento: difficile fare arte senza vivere e rivivere i sottili intrecci di senso del rapporto tra l’uomo e il Cielo, tra l’uomo e la Terra, tra l’uomo e il sottosuolo. E su queste realtà si concentra affinché il cielo non sia troppo lontano, la terra troppo arida e spenta, il sottosuolo troppo ingombrante.
Il problema che tormenta positivamente Paladino è proprio questa complessità, per uscire dalla quale occorrono scelte, studio, trasporto spirituale e quei benedetti martello e pennello che riescono a inseguire e, al tempo stesso, a sfuggire al richiamo dell’arte. Proprio a quell’arte che, forse, prima di trovare ispirazioni e incarnazioni nel cielo e nella terra, affonda le radici in un mondo onirico tutto particolare.

Paladino ha costruito una sua archeologia del passato e ne ha stabilito regole e principi, in virtù dei quali, vi si immerge e ne trae gli spunti migliori. Se potessimo stabilire tipologie, dovremmo porre Paladino proprio tra gli archeologi che vanno alla ricerca, non solo di reperti bensì delle peculiari ispirazioni degli artisti di tempi ormai lontani ma sempre presenti, perché lo stupore umano sfugge alle classificazioni pur necessarie. E, come artisti, vanno annoverati soprattutto coloro i quali, proprio nella pedagogia delle piccole cose quotidiane, hanno saputo trovare qualcosa di universale. Anche l’universale di Paladino sfugge ad ogni incapsulamento. E, allora, l’arte si fa anche dono per chi ne sa cogliere il senso. Paladino si presenta con una sua filosofia vivente, una passione non inutile ma pensosa e assetata di senso.

Conosce il mondo e sa bene che la gente è spesso sorda, cieca e muta sulle fatiche altrui; che il suo lavoro di una vita non può essere frammentato, suddiviso in periodi, forme, correnti perché la sua filosofia, non certo frutto solo di buon senso, tende ad una unità ispiratrice e ad una concezione unificatrice della vita e, quindi, anche le sue realizzazioni e le parole che le accompagnano offrono sempre una impressione polare: un’opera finita che si apre ad altro, un punto fermo che diviene avamposto, un quadro di sintesi che si trasforma in tante cose mentre lo osservi. Non è la fugacità delle cose ma la consapevolezza che l’uomo diviene pur permanendo in gran parte quello che è, quello che si conosce di lui, quello che in effetti esprime e subito sfugge.
Paladino parla con le sue opere, specie con quelle che descrive dopo averle riportate in vita dalla polvere del tempo. E sono tante! Tutte belle, significative e a lui care. Si aggira tra pittura, scultura, grafica alla maniera di un robivecchi alle prese con i tanti resti che ancora gli rimangono. Tutti accatastati e quasi archiviati in un ordine-disordine che solo lui è in grado di interpretare e di narrare. E sospira, quasi a volersi mantenere fedele a quella nostalgia che non lo lascia e gli ricorda del ragazzo che era , dei viaggi tra Vigevano e Brera e di quel bagaglio di sogni e di ispirazioni, di aspettative speranzose e di sofferenze. Con il quadro in mano parla di quegli anni in cui già i suoi maestri di Brera lo indicavano come giovane-studente-lavoratore-serale e promettente.

C’è una piccola epica in certe vite, con suoi misteri e sue erranze significative. In quell’ordine-disordine, dal quale non può mancare la polvere a strati, ho vissuto il piacere e lo stupore di tante cose belle, di tante forme espressive diverse, di studi su materie di una varietà che stupisce. Paladino parlava, descriveva, recitava e giocava seriamente anche la parte dell’imbonitore alle prese con la sua storia, con le sue opere e con quel fardello assai alto che è poi il pizzico di dignità che non può mai disperdersi. Proprio perché la bellezza e la fatica di produrla "ti trasformano e ti tirano dove vogliono loro". Se è vero che ogni vita merita un romanzo, a Paladino spetta un posto ormai riconosciuto nella storia dell’arte. E, per tanti motivi, tutti identificabili e rapportabili, come ha bene posto in risalto Mariangela Maritato nella presentazione dell’ultima personale dell’Artista allo Spazio Rocco Scotellaro (2011), nella ricerca di un centro:" L’acutezza degli angoli e delle linee delle sculture tendono in un moto disperato verso l’alto a voler toccare l’assolutezza divina in uno slancio di mistica elevazione. Ritorna in esse l’dea di "Centro", che ha una grandissima importanza in tutte le tradizioni antiche".

La fedeltà a questo “Centro” sembra porre Paladino in una sfera di cristallo, avulsa dalla cultura postmoderna, che ha colto proprio nella centralità qualcosa da eliminare per conferire significati spesso effimeri ad un umano frammentato. Forse è anche vero che una maggiore attenzione ai frammenti può portare ad una ricostruzione dell’intero umano. E in quei frammenti si ricercano nuove e sempre più autonome, spesso anarchiche, forme estetiche e artistiche.
Paladino pensa all’armonia e alla trascendenza del cielo, si incarna in una terra sempre più arida sul piano del senso e dei valori, sa immergersi negli strati profondi e complessi dell’esistenza. Ne emerge un suo cammino originale, frammento anch’esso, ed egli trova nell’agire, nella manualità pensosa e nel produrre, la sua ragione di vita. Non giudica gli altri: sa che l’arte sa aprire strade servendosi solo degli uomini, delle loro interazioni e idee. Offre l’impressione di nutrire il timore di essere qualcuno. Impressione vissuta in un mondo che taglia corto sul bello e sul brutto e che non sembra neanche più assegnare alla pazienza, alla costanza e allo studio quella dose di attenzione e di cura dell’intenzione per ciò che si crea.
Si è spesso spiazzati, suggerisce, da coloro i quali hanno solo fretta e che con frizione schiacciata e acceleratore premuto al massimo non maturano quel canone del buon senso che dovrebbe indurre a distinguere ciò che vale da ciò che ancora deve fare un po’ di strada per imboccare la via dell’arte. Abbiamo fretta e non cerchiamo di costruire quel Centro attorno al quale e in virtù del quale dare mano al pennello, al martello, alla scalpello per creare e costituire una voce nuova nel sistema arte.
La sua biografia parte da una umiltà di fondo, da quella fatica quotidiana che è amica dell’arte anche se spesso si presenta come ostacolo, condizionamento, variabile problematica: calli alle mani, lavoro per vivere e cura dell’arte per passione di vita e di tutto ciò che dalla vita non può prescindere. In questo orizzonte la sua biografia è già opera d’arte e segno di un itinerario verso le cose alte e belle perché colte trascendendosi senza rinnegarsi e senza assumere la maschera del giudice ad ogni costo dell’arte altrui. Paladino sa bene che chi giudica gli altri, chi si sofferma a smontare anche quel piccolo castello dei sogni che ogni artista cerca di costruirsi, non ha poi tempo per amare l’uomo che in quelle costruzioni spesso si mimetizza o ad esse conferisce una nuova veste.
Sembra che si chieda costantemente: "Chi è il mio prossimo". E ci riflette sopra e ne traduce le risposte nelle opere.

Il suo prossimo sono coloro nei quali si imbatte, nel lavoro, sulla strada, nell’immaginazione. Anche il puro caso ha la sua parte. Ma chi produce arte va oltre la casualità e dà forma alle risposte che hanno sempre di mira, in un modo o nell’altro, l’esodo umano. E questa realtà, Paladino la interpreta e ne elabora forme che attingono livelli di originalità e forme sulle quali riflettere perché l’intuizione non basta. E ciò avviene specie nei lavori costruiti con poche cose e con tratti essenziali: una rete metallica e alcune sagome umane che, come ombre vaganti, vi prendono vita. Alla vista di questo lavoro gli ho detto: "Paladino vada avanti su questa strada".
Lui, tra il sornione e l’uomo alla ricerca, mi ha guardato, ha sorriso e mi ha mostrato altri quadri. Il senso di un’opera non si ripete. Per ogni opera che ti sottopone ha una frase appropriata, un ricordo peculiare, un giudizio dei suoi professori di Brera, un riferimento alla cultura e all’arte classica, a Pompei, al Gotico, al Neoclassico, alla Bauhaus e al critico Raffaele De Grada ecc. E mentre ti guida per casa e nel suo laboratorio, dove "d’inverno neanche l’opera d’arte riesce a scaldarti", misura le parole e i giudizi, propri e altrui, da buono e umile rappresentante di se stesso. Perché con se stessi alla fine occorre fare i conti. Misura le parole, orienta al suo mondo simbolico e non manca di sottolineare che la sua mente, il suo cuore e le sue mani riservano ancora cartucce da sparare.

"Giuseppe Vico, Maggio 2011"